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Corte di Appello di Brescia
Principi espressi nell’ambito di un giudizio di appello volto al riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore dopo il superamento del periodo di comporto per la terza volta. Il lavoratore lamentava la tardività dell’atto espulsivo, nonché il carattere discriminatorio e ritorsivo del licenziamento.
In caso di licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, la tempestività o meno del licenziamento intimato dal datore di lavoro va valutata con riferimento all’ultimo superamento del periodo di comporto e non facendo riferimento a precedenti superamenti che il datore di lavoro ha deciso di non sfruttare.
Il diritto del dipendente di conoscere con certezza la sorte del proprio rapporto di lavoro si realizza attraverso la valorizzazione dell’affidamento in lui generato dall’inerzia del datore di lavoro che, pur potendo recedere, abbia tuttavia accettato la prestazione lavorativa del dipendente (cfr. tra le varie, Cass.16392/2017, Cass.10666/2016, Cass.18411/2916). Fino a quando il lavoratore non sia rientrato in servizio, la pura e semplice inerzia dell’imprenditore è ancora un contegno neutro, di per sé non significativo della volontà di rinunciare alla facoltà di recesso e quindi inidoneo a determinare l’altrui incolpevole affidamento. Solo al momento del rientro in servizio il dipendente sviluppa quell’esigenza di sapere se il rapporto continuerà, che è alla base del requisito della tempestività del recesso, perché prima di allora il sinallagma funzionale del rapporto è quiescente (il rapporto è sospeso per la malattia).
Nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio, il lavoratore che esercita l’azione può limitarsi a fornire elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico e relativi ad esempio alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti - che siano idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori. Spetta invece al datore di lavoro l'onere di provare l’insussistenza della discriminazione che opera obiettivamente, ossia in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta.
In caso di licenziamento ritorsivo, non solo il licenziamento deve essere ingiustificato, ma è necessario che il motivo che si assume essere illecito sia stato l'unico determinante (cfr. Cass. 05/04/2016 n. 6575 ed ivi ampi riferimenti di giurisprudenza) e spetta al lavoratore fornire la prova di quest’ultimo motivo. Occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa della volontà di recedere dal rapporto di lavoro; il carattere determinante del motivo può restare escluso dall’esistenza di un giustificato motivo oggettivo o di una giusta causa quando questi non vengano soltanto allegati dal datore di lavoro, ma anche comprovati e quindi siano tali da poter reggere da soli il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito (Cass. 30429/2018).
La Corte d’Appello ha respinto il reclamo.